Nuove mostre al Museo Novecento dal 27 settembre al 16 gennaio 2020

Aprono i battenti tre mostre temporanee, un nuovo appuntamento con la rassegna video in Sala cinema e molto altro ancora..

Il loggiato coperto, il piano terra, i due piani superiori, la Sala cinema: le nuove mostre al Museo Novecento vanno a rinnovare “fluidamente” il tetris di temporanee che è la cifra stilistica della direzione di Sergio Risaliti, un turn over costante di progetti che occupano i vari spazi delle ex Leopoldine rinnovandoli e arricchendoli di mese in mese, senza sosta. Il 27 settembre (e fino al 16 gennaio 2020) si alza il sipario su tre nuovi progetti espositivi e su un nuovo appuntamento della rassegna di video d'artista. L’opening sarà anche l’occasione per presentare la guida/catalogo della collezione permanente Alberto Della Ragione (edito da Bandecchi&Vivaldi), assieme al diario dei cinquanta eventi che hanno preso vita negli spazi del museo nel corso del 2018 e nella prima metà del 2019. La pubblicazione riunisce e propone al pubblico tutti i saggi e le riflessioni d'artista pubblicati dall'inizio del restyling messo in atto dalla direzione artistica assieme al team di curatrici del Museo.

È l’artista cinese Wang Yuyang (Harbin, 1979), alla sua prima personale in Europa, il protagonista del sesto appuntamento del ciclo Duel, ideato dal direttore artistico del Museo Novecento Sergio Risaliti, che vede curatori ospiti  chiamati di volta in volta a collaborare con artisti attivi sulla scena internazionale per realizzare interventi site-specific ispirati alla collezione del Museo.

Questa nuova mostra Lucciole per lanterne, ideata in collaborazione con Massimo De Carlo Milano/London/Hong Kong e curata da Lorenzo Bruni, vede le opere di Yuyang – tre cicli pittorici e due installazioni luminose – in aperto dialogo con una Natura morta (1923-24) di Giorgio Morandi proveniente dalla collezione Alberto Della Ragione.

L’opera di Morandi è stata individuata da Wang per le analogie con la propria ricerca sull’illusione dell’oggettività e sull’equilibrio tra immagine astratta e figurativa, oltre che per ricordare gli anni della sua formazione, quando il giovane artista studiava e riproduceva le opere del maestro bolognese nelle aule della Central Academy of Fine Arts di Beijing in Cina, dove adesso è professore di arte sperimentale.

Il titolo – Lucciole per lanterne - chiama in causa quell’errore di interpretazione in cui si può facilmente cadere quando, fidandosi di un’osservazione superficiale, si giudicano i fenomeni del reale. L’esposizione fiorentina è una tappa importante nella ricerca artistica di Wang Yuyang legata ad una riflessione su come i mezzi di riproduzione tecnica, sia di tipo analogico che digitale, possano influenzare la percezione della vita quotidiana, della memoria collettiva e del ruolo dell’arte.

L’artista stesso descrive il suo interesse nei confronti della scienza e delle nuove tecnologie: “I miei quadri Moon- spiega Yuyang - sono la copia fedele delle immagini prodotte dalle agenzie spaziali, caratterizzate da varie gradazioni di grigio. Per realizzarli per prima cosa indosso un paio di occhiali digitali che mi permettono di vedere tutto in bianco e nero; in un secondo momento inizio a dipingere scegliendo i colori ad olio da una tavolozza su cui precedentemente ho cancellato il nome delle varie cromie. Di conseguenza, alla fine del processo, tutti i colori che vediamo sulla tela sono accostati tra loro in maniera casuale, l’immagine finale corrisponde al colore che la Luna potrebbe avere in un altro spazio. Se il pubblico però guarda il quadro colorato usando lo schermo del proprio smartphone in modalità bianco e nero è come se tornasse immediatamente alla nostra realtà”.

Wang Yuyang (nato nel 1979, Harbin, Cina) si è laureato presso la China Central Academy of Drama e la Central Academy of Fine Arts. Attualmente l’artista vive a Pechino, dove insegna dal 2008 alla School of Experiment Art presso la Central Academy of Fine Arts. Il suo lavoro è stato esposto in importanti collezioni pubbliche come: K11 Art Foundation, Hong Kong; Long Museum, Shanghai; Museo d’arte della Central Academy of Fine Arts, Pechino; 21st Century Minsheng Art Museum, Shanghai; Ullens Center for Contemporary Art (UCCA), Pechino e Power Station of Art, Shanghai.

A cura di Lorenzo Bruni
La mostra Lucciole per lanterne è realizzata con la collaborazione della galleria Massimo De Carlo, Milano/Londra/Hong Kong.
Si ringrazia CAFA Central Academy of Fine Arts, Beijing.

Torna il ciclo Campo Aperto al Museo Novecento, che vede protagonista l’artista toscano Lino Mannocci (dal 27 settembre 2019 al 16 settembre 2020) con una mostra dal titolo “Un Matrimonio futurista” curata dal direttore artistico del Museo, Sergio Risaliti.

Ispirate all’unione tra Gino Severini e Jeanne Fort, le opere di Lino Mannocci esposte al primo e secondo piano del Museo Novecento fanno da ideale proseguimento alla mostra Solo. Gino Severini, lamonografica dedicata al pittore toscano tuttora in corso al Museo (fino al 10 ottobre). Mannocci presenta una trentina di lavori tra cartoline ricavate da fotografie d’epoca, marmi che evocano le lapidi-bassorilievi dei primi anni del Dopoguerra e dipinti ispirati alle cartoline rielaborate. Un video e un’installazione completano l’excursus che Mannocci dedica al matrimonio di Gino Severini e Jeanne Fort e alla presenza quel giorno del meglio delle avanguardie parigine.

Lino Mannocci nasce a Viareggio nel 1945. Nel 1968 si trasferisce a Londra. Dal 1971 al 1976 studia al Camberwell College of Arts e alla Slade University. Dal 1976 inizia a trascorrere parte dell’anno a Montigiano, un paesino situato tra Lucca e Viareggio. Nei primi anni ottanta partecipa come cofondatore a tutte le mostre del gruppo la Metacosa. Nel 1984 la prima mostra in un museo, Hack Museum a Ludwighafen, in Germania. Seguono negli anni novanta numerose mostre a San Francisco, New York, Londra, Bergamo e Firenze. Nel 2004 è presente allo Spazio Oberdan di Milano nella mostra curata da Philippe Daverio Fenomenologia della Metacosa – 7 artisti nel 1979 a Milano e 25 anni dopo. Nel 2005 espone con la personale Let there be smoke al Museo Hendrik Christian Andersen di Roma. Nel 2006 a Delhi e Mumbai in India. Nel 2007 cura la mostra e il catalogo Gli amici pittori di Londra alla Galleria Ceribelli di Bergamo, un omaggio alla pittura e all’amicizia. Nel 2010 in occasione della sua mostra di monotipi al Museo Fitzwilliam di Cambridge Clouds and Myths, cura una mostra di opere sull’Annunciazione: The Angel and the Virgin, A brief History of the Annunciation. Nel 2012 espone presso le Cartiere Vannucci a Milano. A ottobre, dello stesso anno, espone a New York alla Jill Newhouse Gallery, mentre al 2014 risale la mostra E l’angelo partì da lei presso la Galleria San Fedele di Milano. Nel 2015 inaugura una personale presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Palazzo Pitti di Firenze e nello stesso anno espone un gruppo di cartoline con interventi manuali relative ai principali esponenti del Futurismo alla Estorick Collection di Londra. Opere di Lino Mannocci sono presenti, tra le altre, al British Museum in London, all’Altonaer Museum di Amburgo, W. Hack Museum di Ludwigshafen, Musée Jenisch di Vevey, Mead Art Museum di Amherst e al Fitzwilliam Museum di Cambridge.

Un nuovo progetto anima il loggiato al primo piano del Museo Novecento, luogo originariamente destinato alla lettura, alla meditazione e al confronto silenzioso e oggi spazio vitale della sezione Ora et labora, aperta ad una riflessione sul linguaggio e sul valore della scrittura nelle arti visive in cui giovani artisti contemporanei sono chiamati, di volta in volta, a confrontarsi con l’architettura del museo e con il tessuto urbano in cui questo si colloca.

Dal 27 settembre al 16 gennaio 2020 albergherà nei suoi spazi l’installazione site specific di Rebecca Moccia (Napoli, 1992) dal titolo Da qui tutto bene, a cura di Sergio Risaliti e in collaborazione con la Galleria Mazzoleni (London – Torino).

Con raffinata ironia, l’artista riflette sulla storia del complesso monumentale delle Ex Leopoldine che, dopo aver ospitato per secoli malati e mendicanti, è stato convertito in luogo di accoglienza e istruzione per giovani fanciulle povere, prima di essere restituito alla comunità come scuola e, infine, come museo di arte moderna e contemporanea. In un edificio dalla forte vocazione sociale, il lavoro di Rebecca Moccia chiama in questione la nostra appartenenza a questo spazio e a questo tempo, facendoci oscillare tra il confronto brutale con una realtà fittizia e la delicata sospensione della nostra transitorietà. L’intervento dell’artista prevede l’impiego di carta blue back: attaccata sul retro, la carta lascia celata alla vista la parte usualmente riservata all’immagine. I fogli sono strappati con il taglierino ricordando l’ombra delle fronde e degli elementi architettonici del loggiato. Queste ombre in negativo ricalcano la luce dell’alba del giorno dell’apertura della mostra (26 settembre), calcolata attraverso l’impiego di un software di illuminotecnica. La carta si sovrappone, coprendo parzialmente le coppie di sinonimi maschili e femminili dipinte su muro, tratte dalla serie Un Linguaggio Inaudito (2013-2018). A completare l’installazione, quattro altoparlanti trasmettono ininterrottamente notiziari e dibattiti di attualità in italiano e in inglese.

Nuovo appuntamento con la rassegna di video, concepita da Beatrice Bulgari per In Between Art Film e a cura di Paola Ugolini per la sala cinema del Museo Novecento.

La nuova rassegna, dal titolo Survival strategies (27 settembre 2019 – 16 gennaio 2020), raccoglie le opere di sette artisti internazionali – Hiwa K, Santiago Sierra, Regina José Galindo, Maria José Arjona, Mary Zygouri, Shadi Harouni, Masbedo - che riflettono sul nostro presente, tragicamente lacerato da sanguinosi conflitti, odi razziali e faide religiose alimentate da interessi economici e geo-politici.

La rassegna si apre con The Bell Project (2007.2015) Iraq-Italy di Hiwa K(Sulaymanyya, Kurdistan, 1975), artista che ha cominciato la propria carriera nel suo paese natale come pittore figurativo. Nonostante adesso viva a Berlino e abbia smesso di dipingere, ha mantenuto nella sua pratica un’attitudine realistica che si riverbera nella produzione più recente. Il video ripercorre la realizzazione del progetto presentato da Hiwa K alla Biennale di Venezia del 2015, dove ha esposto una grande campana, realizzata con la fusione dei metalli recuperati durante il conflitto Iran-Iraq (1980-1988) ed entrambe le Guerre del Golfo (1991, 2003), adornata di bassorilievi che rappresentano alcune opere d’arte mesopotamica distrutte dall’ISIS. Come in un esperimento alchemico, mentre il metallo degli ordigni bellici fonde e prende una nuova forma, tutto il mortale frastuono della guerra si trasforma in un suono di pace e speranza.

A seguire Palabra destruida (Destroyed word) (2010-2012) di Santiago Sierra (Madrid, 1965), che da quasi trent’anni realizza opere video e performance muovendosi sul terreno impervio della critica alle condizioni socio-politiche della contemporaneità. Scomodo messaggero della cupa verità del nostro tempo, Sierra mette il dito nelle piaghe della società contemporanea denunciando lo sfruttamento del lavoro, la disuguaglianza e la discriminazione. In questa opera video a 10 canali Sierra mette in scena la distruzione fisica delle dieci lettere che costituiscono la parola Kapitalism. Ogni lettera, costruita con materiali diversi, è stata realizzata in un diverso luogo geografico per poi essere distrutta dando vita a dieci performance.

La rassegna prosegue quindi con La Sombra (2017) di Regina José Galindo (Città del Guatemala, 1974), presentato a Kassel in occasione di Documenta 14. L’artista usa il proprio corpo, fragile e spesso nudo, per denunciare la violenza contro le donne e, più in generale, quella sociale, politica e culturale della società contemporanea. Nel video, Galindo mette in scena se stessa, ansimante, mentre corre inseguita da un carro armato. Oltre a riportare l’attenzione sull’oppressa condizione femminile, il video è una denuncia nei confronti del mercato delle armi e dei paesi che le producono.

Anche Maria José Arjona (Bogotà, 1973) nel video Linea de Vida (2016) usa il suo corpo come strumento dinamico per riconnettere lo spettatore

al mistero della natura e alla sua intrinseca forza. L’artista, muovendosi sinuosamente nell’angusto spazio orizzontale fra il pavimento e le mille bottiglie di vetro appese al soffitto con altrettanti fili di nylon, imprime a queste ultime un ritmico moto ondulatorio che ricorda visivamente quello del mare e ricrea artificialmente il mormorio cristallino dello scorrere dell’acqua per evocare uno stato di primitività. L’artista scompare fisicamente alla vista per lasciare spazio all’esperienza, così da riportare lo spettatore alla poetica del rapporto intimo con la natura.

Nel video Venus of the Rags/In transit/ Eleusis (2014), la performer greca Mary Zygouri (Atene, 1973) utilizza invece la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto per comporre un racconto surreale, girato a Elefsina (Eleusi), città tristemente esemplare di una scellerata stratificazione urbana che stride con le rovine archeologiche del suo glorioso passato. Questa dea ‘in transito’, in cerca di una nuova ubicazione, diventa il simbolo della condizione di transizione della stessa Elefsina, nel suo tentativo di rilocare e ricontestualizzare culturalmente il luogo, le comunità e le identità. Riprendendo alcuni elementi caratteristici del proprio lavoro, l’artista usa inoltre il proprio corpo di donna come strumento per un discorso politico (personale e collettivo), capace di assorbire «le vibrazioni dell’ambiente architettonico umano e urbano».

Un’altra artista donna, Shadi Harouni (Hamedan, Iran, 1985), è l’autrice del video seguente The Lightest of Stones, giratoin una cava di pietre del Kurdistan dove un gruppo di uomini, confinati in quel luogo inospitale a causa delle loro idee politiche, discutono di ISIS, di leggende e delle sexy-dive americane come Jennifer Lopez. L’artista con le mani nude scava la terra per estrarre le pietre, dando la schiena al gruppo di uomini che fra il serio e il faceto continuano a chiacchierare fra di loro interrogandosi anche sul senso dell’azione fisica e illogica che la ragazza sta compiendo.

A chiudere la rassegna è Glima (2008), del duo Masbedo (Nicolò Massazza, Milano 1973, Iacopo Bedogni, Sarzana 1970), che in mette in scena, con grande efficacia scenografica e narrativa, la tragedia dell’incomunicabilità e della difficoltà dei rapporti di coppia uomo-donna, ispirandosi ad un’antica lotta tradizionale nazionale islandese usata per risolvere le diatribe fra villaggi. Nel biancore accecante dei ghiacci islandesi, in una natura ostile e indifferente ai drammi umani, un uomo e una donna legati da lunghe corde di pelle nera, che ricordano i gatti a nove code delle pratiche sado-maso, si scontrano e si affrontano in una lotta senza quartiere che non lascerà sul campo né vincitori, né vinti. La violenza sembra dunque essere l’unico sentimento che continua a legare i due esseri umani che, ansanti, si trascinano nella macabra danza della sopraffazione.

Concepita da Beatrice Bulgari per In Between Art Film
A cura di Paola Ugolini

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